Responsabilità medica per errato trattamento di calcolosi colecisto-coledocica

Lo studio Wise ha ottenuto il risarcimento dei danni (euro 35.500,00) subiti da una signora di 80 anni, la quale veniva operata per un calcolo alla colecisti con intervento di papillosfinterotomia, passaggio del catetere e rimozione del calcolo. Estratto il calcolo i medici posizionavano una protesi autoespandibile, che si spezzava al momento della successiva estrazione, per cui una parte di circa 3 centimetri rimaneva all’interno del lume intestinale, causando dopo breve tempo una peritonite acuta, che richiedeva intervento chirurgico d’urgenza, con resezione di porzione del sigma per via laparotomica, chiusura del retto e confezionamento di ano artificiale.

Il caso di malpractice

Il caso riguarda una paziente ottantenne portatrice di calcolosi colecisto-coledocica, che veniva ricoverata e sottoposta a papillosfinterotomia, passaggio del catetere e rimozione del calcolo.

Dopo l’estrazione del piccolo calcolo, i medici rilevavano che non vi erano difetti di riempimento e che lo scarico duodenale del mezzo di contrasto era buono. Si decideva comunque di posizionare una protesi autoespandibile, programmando il controllo e la rimozione della protesi dopo due mesi.

Dopo quasi quattro mesi la paziente veniva ricoverata per effettuare la rimozione della protesi, ma durante l’intervento la protesi si spezzava e se ne estraeva soltanto una parte, mentre l’altra scivolava nel duodeno e si decideva di non tentarne il recupero.

Nella lettera di dimissioni si dava atto soltanto della rimozione della protesi, che risultava deteriorata, mentre nulla si diceva a proposito della perdita di una parte della protesi nel duodeno.

Dopo quindici giorni dall’intervento di rimozione della protesi, la paziente accusava forti dolori addominali e veniva pertanto ricovera d’urgenza. La TAC addominale evidenziava una perforazione intestinale e la presenza di un frammento protesico di circa 3 cm.

La paziente veniva quindi sottoposta ad un intervento chirurgico d’urgenza, previa laparotomia, durante il quale era evidenziata la perforazione del sigma con fuoriuscita della protesi biliare. Era effettuata una resezione della porzione di sigma interessata, con confezionamento di ano artificiale.

Dopo circa due anni e mezzo la paziente veniva ricoverata per occlusione ileale da sidrome aderenziale, con infarto intestinale e sottoposta a viscerolisi, con ampia resezione di ileo (circa 40 cm).

 

Le conseguenze dell’imperizia e della negligenza dei sanitari

Il consulente medico legale di parte ravvisava diversi profili di responsabilità professionale nella condotta dei medici che ebbero in cura la paziente, in particolar modo in relazione al posizionamento della protesi biliare, alla sua rimozione con permanenza in sede di un frammento protesico e alla successiva perforazione del sigma.

Il consulente rilevava, innanzitutto, che non fu corretta la decisione dei medici di inserire una protesi biliare, in quanto non si erano evidenziati difetti di riempimento ed era stato dimostrato un buono scarico duodenale con il mezzo di contrasto.

A parere del consulente medico legale il posizionamento della protesi non era indicato, in quanto la stenosi biliare era stata risolta dall’intervento di papillo-sfinterotomia e la protesi era non solo inutile, ma potenzialmente dannosa.

Rilevava inoltre il consulente che l’intervento di rimozione della protesi avveniva quattro mesi dopo, anziché due, come inizialmente programmato, con aumento del rischio di rottura, per nota degenerazione spontanea del materiale protesico.

Il consulente censurava inoltre la procedura di rimozione della protesi e la successiva gestione del frammento protesico rimasto all’interno del duodeno.

Durante l’estrazione della protesi questa si spezzava e una buona parte, circa 3 cm su una lunghezza totale di 5 cm, rimaneva nel duodeno, scivolando a valle.

Secondo il consulente di parte non fu corretta la decisione di non tentare il recupero della protesi, sebbene la paziente, vista l’età, presentasse un intestino poco elastico e fosse portatrice di diverticolosi.

Censurabile, inoltre, è stata ritenuta la condotta dei medici per non aver riferito nella lettera di dimissioni della rottura della protesi e per non aver programmato alcun monitoraggio radiologico del frammento protesico, né un controllo clinico, al fine di valutare un eventuale recupero del frammento mediante colonscopia.

In effetti, dopo quindici giorni la paziente subiva la perforazione del sigma e doveva essere sottoposta a resezione sigmoidea per via laparoscopica, con confezionamento di ano preterminale e successiva ricanalizzazione. A distanza di tempo si verificava poi un volvolo, con insorgenza di infarto intestinale, che rendeva necessario un altro intervento chirurgico, con ampia resezione di ileo.

Il consulente medico legale, accertata la responsabilità professionale dei medici, valutava che i postumi dessero esito ad un danno biologico permanente del 15%.

 

La trattativa stragiudiziale e la definizione del sinistro

Avuto il parere favorevole del consulente medico legale, lo studio legale inviava formale richiesta di risarcimento danni all’azienda ospedaliera, cui seguiva l’apertura del sinistro da parte della compagnia assicurativa e l’invito a visita dell’assistita.

Seguiva una trattativa stragiudiziale che in pochi mesi portava alla definizione della vertenza, con il risarcimento di € 35.500,00, oltre alla rifusione delle spese legali, da parte della compagnia assicurativa.

Malasanità: errore diagnostico per omessa rilevazione di una neoformazione espansiva in sede cerebellare mediana

Lo Studio ha definito con esito favorevole il caso di una bambina di dodici anni che, recatasi presso il pronto soccorso a causa di una intesa cefalea, con conati di vomito ed una transitoria parestesia alla mano destra ed alla lingua, veniva ricoverata, sottoposta ad ulteriori accertamenti e a TAC cerebrale, venendo dimessa pochi giorni dopo. Lo specialista radiologo, con evidente errore di diagnosi, non rilevava una neoformazione espansiva di 1,5-2 centimetri di diametro presente in sede cerebellare mediana. Da tale omissione derivava la necessità di sottoporre la paziente, dopo circa un anno e mezzo, ad un intervento chirurgico altamente invasivo, a causa dell’aumento del volume della massa tumorale avvenuto nel frattempo.

Con l’assistenza degli avvocati dello studio, la paziente è riuscita ad ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali (euro 270.000) patiti in conseguenza dell’omessa diagnosi della neoformazione nella delicata sede cerebellare.

La vicenda clinica e l’omessa diagnosi della neoformazione in sede cerebellare

La paziente, all’età di dodici anni, veniva accompagnata dai genitori presso il locale Pronto Soccorso, poiché lamentava una intensa cefalea. La stessa veniva, quindi, sottoposta ad una visita specialistica e ad un elettroencefalogramma, dal quale non veniva rilevato nulla di anomalo. Pochi giorni dopo, la paziente si recava nuovamente presso il Pronto Soccorso, a causa di una intensa cefalea con conati di vomito. Nell’occasione riferiva al neurologo anche una transitoria parestesia alla mano destra ed alla lingua. Veniva, quindi, ricoverata per un breve periodo di osservazione e veniva sottoposta ad ulteriori accertamenti. Lo specialista prescriveva una TAC cerebrale, che escludeva reperti patologici. Il radiologo commentatore della TAC cerebrale, con un evidente errore di diagnosi, non rilevava una neoformazione espansiva di 1,5-2 centimetri di diametro, presente in sede cerebellare mediana.

La paziente veniva curata con farmaci che facevano regredire i disturbi e veniva dimessa.

Dopo regolari controlli periodici, la paziente, dopo circa un anno e mezzo dal primo accesso al pronto soccorso, si sottoponeva ad una visita oculistica e lo specialista, nell’occasione, rilevava un edema papillare bilaterale e suggeriva l’esame del campo visivo. Un mese dopo la paziente veniva sottoposta ad una nuova visita oculistica durante la quale lo specialista rilevate alcune anomalie, prescriveva una visita neurologica con TAC cerebellare urgente.

Dalla TAC, eseguita lo stesso giorno, emergeva che in sede cerebellare mediana vi era una neoformazione di circa 5 centimetri di diametro.

La bambina il giorno stesso veniva sottoposta ad intervento di terzoventricolostomia, finalizzato alla riduzione dell’ipertensione endocranica e dell’idrocefalo e, dopo circa dieci giorni veniva sottoposta ad un ulteriore intervento chirurgico in cui veniva praticata la craniectomia sub occipitale con asportazione di circa l’80% della neoformazione, che poi veniva riconosciuta essere un medulloblastoma, una delle neoplasie più frequenti dell’infanzia.

A seguito dell’intervento, la paziente presentava, quali conseguenze dell’operazione, disartria (un disturbo all’articolazione della parola), strabismo convergente e difficoltà a deambulare. La degenza ospedaliera, durata oltre un mese, attestava che la paziente presentava una depressione reattiva, una atassia cerebellare (che comporta una andatura cosiddetta “da ubriaco”), una lieve emiparesi dell’arto superiore sinistro, diplopia e strabismo convergente. Doveva sottoporsi, in seguito, a cicli di chemioterapia e radioterapia e, negli anni successivi all’intervento, veniva sottoposta anche ad un programma di riabilitazione neuro-psicologica, logopedia, neuro-motoria, a visite oculistiche ed a periodici controlli presso la clinica di oncoematologia pediatrica dell’azienda ospedaliera del capoluogo di Provincia.

Le conseguenze della negligenza dei sanitari

La perizia medico legale di parte evidenziava un errore di diagnosi del medico radiologo commentatore della prima TAC alla quale veniva sottoposta la paziente, non avendo rilevato una neo-formazione espansiva del diametro di 1,5-2 centimetri di diametro, presente in sede cerebellare mediana. Una diagnosi tempestiva avrebbe consentito un approccio terapeutico meno aggressivo, con elevate probabilità di limitare, se non annullare, le complicanze chirurgiche e radioterapiche. L’intervento chirurgico a cui la paziente veniva sottoposta dopo un anno e mezzo dalla prima TAC consistette nell’asportazione di una massa tumorale che nel frattempo era raddoppiata di dimensioni, con la conseguente necessità di asportare anche il tessuto sano in percentuali maggiori, con gravi conseguenze menomanti.

Le trattative e la risoluzione in via transattiva dell’episodio di malasanità

Istruito il caso, lo Studio formalizzava una richiesta risarcitoria in via stragiudiziale, quantificando i danni di natura patrimoniale e non patrimoniale patiti dalla paziente.

Le trattative duravano qualche mese e non portavano ad una soluzione della vertenza.

Si decideva, pertanto, di procedere con il deposito di un ricorso ex art. 696 bis c.p.c., non essendovi ancora l’obbligo, imposto dalla successiva legge Gelli Bianco, di precedere ex art. 702 bis c.p.c.

Incardinato il giudizio nei confronti della struttura ospedaliera, che chiamava in causa la compagnia di assicurazione, veniva disposta una consulenza tecnica d’ufficio.

Il procedimento, agli esiti della CTU, che confermava la responsabilità del personale sanitario, si concludeva nel giro di pochi mesi e si addiveniva ad una transazione, con un risarcimento dei danni per malasanità pari ad euro 270.000, corrisposti dalla compagnia assicurativa.

Responsabilità del medico di medicina generale per omessa prescrizione di visita chirurgica a fronte di evidenza diagnostica di tumore della tiroide

Lo studio legale Wise ha risolto positivamente il caso di una donna che, sotto il controllo del proprio medico di medicina generale, dal 2001 si sottoponeva regolarmente a controlli ecografici della tiroide per la presenza di noduli, fino a quando, nel gennaio del 2005, l’esame istologico su materiale prelevato mediante agoaspirato diede come responso: tumore ossifilo della tiroide (c.d. tumore a cellule di Hurtle). A fronte della diagnosi il medico di base consigliava soltanto di continuare il monitoraggio con controlli ecografici annuali.

Solo anni dopo, nel febbraio del 2013, a seguito di visita endocrinologica e di ulteriori accertamenti che rivelavano formazioni nodulari multiple in ambito parenchimale polmonare, la donna veniva sottoposta ad intervento di tiroidectomia totale, ma purtroppo l’intervento non era risolutivo e la paziente, alla fine del 2017, decedeva a causa della patologia.

Lo studio legale Wise ha ottenuto il risarcimento dei danni (euro 370.000) subiti dai due figli della donna, a titolo di danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale.

Il caso di malasanità: omessa prescrizione di visita chirurgica da parte del medico di medicina generale a fronte di evidenza diagnostica di tumore della tiroide

Il caso riguarda una donna che nel gennaio del 2005 si sottoponeva, su prescrizione del proprio medico di base, ad un controllo radiografico alla tiroide e ad agoaspirato tiroideo, in quanto sin dal 2001 presentava noduli alla tiroide.

Il referto dell’agoaspirato orientava per un tumore ossifilo della tiroide (c.d. tumore a cellule di Hurtle) e il medico di base, visto il referto, consigliava di continuare con i controlli radiografici annuali.

Nell’autunno del 2011 la paziente si rivolse al medico di base lamentando una tosse persistente, ma gli esami prescritti dal medico non evidenziarono nulla di particolare. Nell’ottobre del 2012, persistendo la tosse, alla paziente veniva prescritta una visita endocrinologica. L’endocrinologo consigliava alla paziente altri accertamenti, tra cui radiografia al torace, TAC e biopsia polmonare, che rilevarono multiple formazioni nodulari in ambito parenchimale polmonare e portarono ad una diagnosi di tumore neoplastico a cellule di Hurtle. Seguì, quindi, visita oncologica ed intervento di tiroidectomia totale, eseguito nel febbraio del 2013.

La paziente nei mesi a seguire venne sottoposta a radioterapia e a terapia farmacologia, ma le sue condizioni continuarono ad aggravarsi progressivamente, fino al decesso, avvenuto alla fine del 2017.

La richiesta stragiudiziale di risarcimento

Lo studio legale Wise acquisiva innanzitutto il parere del proprio consulente medico legale, il quale, dopo aver esaminato tutta la documentazione medica e sottoposto a visita l’assistita, riteneva sussistere la responsabilità del medico di base, poiché costui, a fronte della diagnosi di tumore alla tiroide e dell’aumento delle formazioni nodulari, avrebbe dovuto consigliare alla paziente una visita chirurgica.

Lo studio Wise, forte del parere positivo del medico legale, interveniva in nome e per conto della paziente, formulando in via stragiudiziale richiesta di risarcimento danni al medico di medicina generale.

La compagnia assicuratrice del medico apriva il sinistro e sottoponeva a sua volta a visita la paziente.

Seguirono le trattative per la definizione del sinistro, ma, purtroppo, nelle more l’assistita venne a mancare.

Lo studio Wise convocava quindi gli eredi della donna, che aveva due figli non conviventi, e inviava una nuova richiesta di risarcimento danni a nome dei figli.

L’accertamento della fondatezza della pretesa risarcitoria

Il consulente medico legale incaricato dallo Studio Wise ravvisava profili di responsabilità del medico di base che aveva avuto in cura la paziente nel 2005, poiché, a fronte dell’esito dell’agoaspirato, che orientava per un tumore della tiroide, e dell’aumento delle formazioni nodulari, costui avrebbe dovuto, secondo quanto imponeva la letteratura scientifica dell’epoca, consigliare alla paziente una visita chirurgica e l’intervento chirurgico.

Il consulente evidenziava inoltre che, se l’intervento fosse stato eseguito nei primi mesi del 2005 anziché nel febbraio del 2013, quando la malattia era ormai in fase metastatica e avanzata, l’intervento sarebbe stato meno esteso e sarebbe stato probabilmente risolutivo o comunque la paziente avrebbe avuto maggiori chance di sopravvivenza.

Evidentemente anche il consulente della compagnia assicurativa del medico ravvisò profili di responsabilità medica, poiché la controparte si dimostrò disponibile a trattare in via stragiudiziale per giungere ad una transazione.

La trattativa stragiudiziale e la definizione del sinistro

La trattativa stragiudiziale iniziava quando ancora l’assistita era in vita, anche se molto provata dalla malattia, ma di lì a breve costei veniva a mancare e lo studio Wise, dopo aver acquisito la documentazione comprovante la causa del decesso, che si rivelava essere stata la patologia diagnosticata nel 2005, interveniva in nome e per conto dei due figli della defunta, chiedendo il risarcimento del danno per la perdita della congiunta.

Tenuto conto del fatto che i figli non erano conviventi con la defunta e che trattavasi di danno da perdita di chance, il risultato ottenuto dallo studio Wise è rimarchevole, poiché a ciascun figlio è stata riconosciuta la somma di euro 185.000,00 e così complessivamente euro 370.000,00.

Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale viene liquidato sulla base delle tabelle redatte dall’Osservatorio del Tribunale di Milano, le quali per ogni grado di parentela prevedono un range di valori tra un minimo e un massimo, da liquidarsi in base alle circostanze del caso concreto (convivenza, frequentazione con il congiunto, ecc…).

In caso poi di danno da perdita di chance, cioè di danno da perdita o riduzione delle possibilità di guarire o di sopravvivere più a lungo, la liquidazione avviene in via equitativa, commisurata alle presumibili possibilità di sopravvivenza del paziente in caso di corretto e tempestivo approccio terapeutico.

Malasanità: errore tecnico nell’esecuzione di intervento di isterectomia

Lo studio legale ha ottenuto il risarcimento dei danni (euro 37.000,00) subiti da una signora di 46 anni, la quale, durante un intervento di isterectomia allargata, a causa dell’imperizia del chirurgo, subiva la lesione chirurgica o da strappo dell’uretere di destra e della vescica, cosa che rendeva necessari ulteriori ricoveri ed interventi chirurgici, i quali lasciavano degli esiti cicatriziali.

Il caso di malpractice

Il caso riguarda una donna di 46 anni, che, a seguito di diagnosi di carcinoma uterino, veniva sottoposta ad intervento di isterectomia allargata (asportazione di utero, ovaie e tube, parametrio e paracolpo).

Dopo l’intervento la donna manifestò incapacità ad urinare e venne pertanto sottoposta a uro-TC, che rilevò la presenza di urina all’interno dell’uretere di destra e della vagina e il radiologo sospettò la lesione del tratto pelvico dell’uretere di destra e segnalò la presenza di una fistola peritoneo-vaginale.

Si rese quindi necessario posizionare un catetere vescicale e la paziente venne successivamente ricoverata per eseguire un intervento di nefrostomia a destra, al fine di far fuoriuscire l’urina dal rene. La cistoscopia evidenziò la fistola uretero-vaginale e la lesione dell’uretere destro e fu posizionato uno stent.

Durante la convalescenza si manifestarono delle complicanze, a causa della dislocazione dello stent e la paziente venne nuovamente ricoverata per la rimozione dello stent.

Ci fu, infine, un altro ricovero, durante il quale vennero eseguiti ulteriori accertamenti diagnostici, per poi trattare chirurgicamente la lesione dell’uretra e della vescica con ureterocistostomia (abboccamento chirurgico dell’uretere con la vescica).

Fortunatamente l’intervento e il decorso post-operatorio non ebbero complicanze, ma residuarono una cicatrice laparotomica dall’ombelico alla regione sovrapubica lunga 14 cm e altre cicatrici alla regione lombare destra e alle fosse iliache.

Le conseguenze dell’imperizia dei sanitari

Il consulente medico legale di parte, esaminati i dati anamnestici e clinico documentali, ravvisò un errore tecnico nell’intervento di isterectomia allargata.

Il consulente precisava che il verbale dell’intervento non segnalava particolari difficoltà operatorie, ma che in realtà, nella fase di esposizione dei visceri, vi fu la lesione chirurgica o da strappo dell’uretere di destra e della vescica stessa. Ciò spiega la successiva formazione di fistola con spandimento di urina nella vagina e la necessità della nefrostomia e dell’esecuzione dell’ureterocistostomia.

Il consulente medico legale accertava quindi che, oltre al danno biologico temporaneo conseguito ai numerosi ricoveri, vi fu un danno biologico permanente, rappresentato dagli esiti cicatriziali chirurgici e dal laparocele, quantificabile orientativamente nella misura del 13%.

La trattativa stragiudiziale e la definizione del sinistro

Avuto il parere favorevole del consulente di parte, lo studio Wise formalizzava una richiesta di risarcimento danni all’azienda sanitaria responsabile, cui seguiva l’apertura del sinistro da parte della compagnia assicurativa e l’invito a visita dell’assistita.

Dopo la visita di controparte, lo studio avviava la trattativa stragiudiziale con il liquidatore della compagnia, trattativa che si concludeva in tempi rapidissimi, una settimana appena, con una transazione e con un risarcimento danni di euro 37.000,00, oltre alla rifusione delle spese legali.

Erronea condotta medica in occasione di un intervento chirurgico per applicazione di stent (per stenosi asintomatica della carotide interna sinistra) e assenza del consenso informato del paziente prima dell’operazione

Lo Studio è riuscito a far ottenere la somma di euro 230.000 agli eredi di un signore 75 enne deceduto in seguito ad un intervento chirurgico per applicazione di stent per stenosi asintomatica della carotide interna sinistra.

La vicenda clinica

In seguito all’applicazione di stent per stenosi asintomatica della carotide interna sinistra, il signore manifestava, sin da subito, stato confusionale ed emisindrome destra e veniva dunque sottoposto ad angio TAC la quale documentava trombosi dello stent.

Il paziente veniva pertanto portato in sala operatoria per rimozione dello stent, trombectomia e trattamento con urochinasi.

Durante l’atto operatorio si creava una lesione vascolare che determinava una massiva emorragia cerebrale; la TAC encefalo documentava anche stravaso di mezzo di contrasto iodato e presenza di alcune bolle aeree.

A causa della grave complicanza il signore decedeva.

Gli eredi del deceduto, non riuscendo a spiegarsi la causa che aveva condotto il padre al decesso (esito peraltro assolutamente inaspettato, non previsto, né comunicato dai sanitari come conseguenza prevedibile), decidevano di rivolgersi ad un medico legale di fiducia affinché valutasse la documentazione medica ottenuta dall’Ospedale.

 

I vizi dell’operato dei sanitari evidenziati dal medico legale

 

Il medico legale, in seguito alla perizia, evidenziava come vi fossero “una serie di fattori e di comportamenti non idonei che hanno concorso nel determinare il decesso del paziente”.

In particolare, il perito riscontrava come si fosse verificato sin da subito un problema, ovverosia la trombosi acuta massiva dello stent che determinava emi sindrome destra (in questa fase il paziente aveva insulto ischemico).

Inoltre, il medico legale evidenziava come durante il secondo intervento si fosse creata una pervietà della parete vascolare, avvalorata dalla presenza di mezzo di contrasto e di bolle di aria evidenziate dalla angio TAC, nel contesto di una massiva emorragia cerebrale che poi determinava il decesso.

Sempre secondo le valutazioni della consulente di parte, risultava, inoltre, sotto dosata la terapia antiaggregante preoperatoria, verosimile causa di quella trombosi che si è verificata nell’immediato post-operatorio (applicazione dello stent).

Infine, vi fu la totale mancanza del consenso informato del paziente prima dell’operazione, consenso informato il quale costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario in assenza del quale l’intervento del medico è, salvo casi eccezionali, sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente.

 

L’intervento dello Studio: fase processuale e successiva risoluzione in via transattiva della vicenda

 

Gli eredi, forti dell’esito della perizia del medico legale, citavano in giudizio l’Azienda Ospedaliera al fine di sentirla condannare al risarcimento di tutti i danni occorsi in conseguenza al presunto errore medico che determinò la morte del parente.

Successivamente all’instaurazione del giudizio iniziava ad emergere la disponibilità delle parti di risolvere in via stragiudiziale la lite e, in seguito a lunghe trattative compiute dallo Studio, si arrivava al riconoscimento di euro 230.000 a tacitazione di ogni pretesa degli eredi.

 

 

Sospensione della provvisoria esecutorietà del provvedimento monitorio in ambito di fidejussione

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