LA LIQUIDAZIONE DELL’INDENNIZZO DOVUTO IN CASO DI REVOCA DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO: IL RISCHIO DI UN’OTTEMPERANZA “ANOMALA”.

Un’impresa risultata provvisoriamente aggiudicataria di una procedura di project financing per la progettazione, costruzione e gestione di un impianto di dissalazione di acque marine per uso potabile, vede revocare gli atti di gara dalla P.A. la quale, alla luce delle previsioni del nuovo piano regionale generale delle acque, ritiene non più giustificabile la stipulazione dell’atto in questione sotto il profilo dell’interesse pubblico. L’impresa, soccombente in primo grado, si appella al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione Sicilia, eccependo l’illegittimità del provvedimento di autotutela e chiedendo la condanna della P.A. alla corresponsione dell’indennizzo ai sensi dell’art. 21 quinquies L. n. 241/1990. Tale articolo prevede un generale obbligo della P.A. di compensare i pregiudizi subiti dai privati per effetto di un legittimo provvedimento di revoca alla luce del principio di buona fede nei rapporti tra privati e P.A.

Con sentenza n. 479/2017, il C.G.A. respinge la richiesta di caducazione del provvedimento ed accoglie la richiesta di condanna dell’Amministrazione a corrispondere l’indennizzo previsto in caso di revoca. Il C.G.A., nella la pronuncia in commento, ai fini della liquidazione dell’indennizzo, decide di ricorrere al “metodo” di cui all’art. 34 comma 4 c.p.a., il quale prevede che “in caso di condanna pecuniaria, il giudice può in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve porre a favore del creditore, il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titoli I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta oppure l’adempimento degli obblighi ineseguiti”.

Tale pronuncia deve senz’altro ritenersi definitiva e non interlocutoria chiudendo la stessa il giudizio senza lasciare la possibilità di aprire una parentesi di cognizione. Di conseguenza, le eventuali successive contestazioni tra le parti, per la mancata conclusione dell’accordo sul quantum o per il relativo inadempimento, sono attratte nel giudizio di ottemperanza, trattandosi comunque di vicende riconducibili all’esecuzione del dictum che definisce il processo di cognizione.

Si precisa che il giudizio sulla spettanza della pretesa risarcitoria (an debeatur) e sui criteri a cui le parti devono attenersi ai fini del raggiungimento dell’accordo, non è rimesso al giudice dell’ottemperanza bensì al giudice della cognizione.

Elemento significativo di tale sentenza è che la determinazione dei criteri da parte del giudice della cognizione sembra essere stata posta in secondo piano nella pronuncia in questione.

In primo luogo, la determinazione di tali criteri presuppone una delibazione circa l’effettiva sussistenza sia dell’an che del quantum debeatur (seppure non individuato nel suo preciso ammontare) posto che, in primis, il comma 4 dell’art. 34 c.p.c. prevede che in caso di disaccordo, le parti possano ricorrere al giudice dell’ottemperanza per la determinazione della “somma dovuta”, (sembra dunque che la liquidazione debba portare inevitabilmente all’individuazione di un certo ammontare). In secondo luogo, ad ammettere che nulla possa spettare al danneggiato, si dovrebbe ritenere che al giudice dell’ottemperanza sia affidato il compito di accertare l’effettiva spettanza di un quantum e la sua relativa liquidazione, funzione assai simile a quella che il g.o. nel processo di cognizione, svolge in seguito ad una sentenza di condanna generica ex art 278 c.p.c.

Alla luce di questi rilievi, per la liquidazione dell’indennizzo in caso di revoca di provvedimento della P.A. verrebbe alla luce un’ipotesi di giudizio di ottemperanza “anomalo” poiché il giudice sarebbe chiamato non già a garantire l’esecuzione della sentenza, bensì ad integrarne il contenuto, nella parte relativa alla quantificazione della somma dovuta.

Tali considerazioni inducono a ritenere che i criteri sulla liquidazione debbano essere precisi e aderenti al caso concreto e non generici al fine di evitare un’equiparazione fra condanna sui criteri ex art 34 comma 4 c.p.a. e condanna ex art 278 c.p.c.

Se si mantiene ferma la distinzione fra condanna ex art. 34 comma 4 c.p.a. e condanna ex art. 278 c.p.c., enfatizzando il ruolo dei criteri nella prima, ci si accorge che il giudice dell’ottemperanza è chiamato a un ruolo non diverso da quello suo proprio e cioè attuare il dictum che definisce la fase di cognizione anche per mezzo di integrazioni, specificazioni e chiarimenti.

Inoltre, la previsione di criteri puntuali rende l’ottemperanza non “così” anomala in quanto il giudizio si muoverebbe entro i confini tracciati dal giudice della cognizione.

La condanna “sui criteri” rappresenta dunque uno strumento in grado di agevolare il compito del giudice della cognizione senza forzare il rito dell’ottemperanza: l’equilibrio sta nella puntale definizione dei criteri stessi che rende possibile distinguere tale forma di condanna ex art. 34 comma 4 c.p.a. da quella generica ex art. 278 c.p.c. e che evita che il rito dell’ottemperanza, eventualmente insorto per mancato accordo sul quantum o per via della sua mancata esecuzione, si trasformi in un anomalo processo di cognizione.

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