CORONAVIRUS E ATTIVITÀ PROFESSIONALI

Sommario:  1. Premesse; 2. Impossibilità temporanea e parziale ovvero impossibilità permanente e assoluta della prestazione professionale; le relative conseguenze: sospensione del rapporto, risoluzione o recesso; 3. Le attività professionali continuative.

  1. Premesse.

Anche le attività professionali possono risentire degli effetti negativi del Covid-19, in quanto:

  1. il professionista incaricato potrebbe trovarsi nell’impossibilità di svolgere la propria prestazione (impossibilità che può derivare, ad esempio, dai provvedimenti governativi che hanno limitato gli spostamenti e in genere il movimento delle persone, imponendo inoltre il loro distanziamento sociale, oppure dallo stato di malattia o quarantena o isolamento del professionista); oppure
  2. la prestazione professionale potrebbe diventare inutile, a causa della sopravvenuta irrealizzabilità dello scopo per cui le parti avevano contrattato (ad esempio, la progettazione di uno stand fieristico laddove la fiera sia stata annullata sempre in ragione delle norme sul distanziamento sociale); oppure
  3. le prestazioni a carico dell’una e dell’altra parte (ossia l’attività professionale e il pagamento del corrispettivo) potrebbero diventare tra loro sproporzionate o squilibrate nel loro valore “reale”, rispetto a quanto era stato originariamente convenuto, a causa delle circostanze conseguenti al diffondersi della pandemia.

Ebbene, la regola generale è che, nel rapporto di lavoro autonomo qual è solitamente quello professionale, il rischio grava in linea di principio sul prestatore d’opera (professionista), con la conseguenza che chi si impegna a compiere un’opera o fornire un servizio si assume il rischio di non poterla compiere (o che il suo “guadagno” perda valore) per cause che esulano dalla propria sfera d’azione: non a caso, l’assunzione del rischio rappresenta uno degli indici maggiormente rappresentativi del rapporto d’opera professionale e, in genere, del lavoro autonomo.

  1. Impossibilità temporanea e parziale ovvero permanente e assoluta della prestazione professionale; le relative conseguenze: sospensione del rapporto, risoluzione o recesso.

In generale, trattandosi di contratti a prestazioni corrispettive,  le dette circostanze determinano l’impossibilità sopravvenuta della prestazione (ovvero del raggiungimento dello scopo del contratto) o l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione a carico dell’una o dell’altra parte, il che comporta (qualora l’impossibilità e/o inutilità sopravvenuta siano permanenti e assolute) la risoluzione del contratto, con la conseguenza che questo si scioglie e che la parte onerata della prestazione divenuta impossibile o inutile o eccessivamente onerosa non è più tenuta ad eseguirla e che l’altra parte non è più tenuta a pagarne il prezzo e ha anzi diritto alla sua restituzione, se l’ha già pagato (artt. 1463 e 1467 c.c.).

Ciò posto in termini generali, è però necessario considerare il caso concreto, sia perché la disciplina di ciascun tipo contrattuale può contenere norme specifiche, sia perché la regolamentazione contrattuale adottata tra le parti potrebbe avere concordato previsioni particolari, sia ancora perché, più in generale, è di volta in volta possibile che l’emergenza coronavirus determini un’impossibilità di svolgere la prestazione professionale (o la sua “inutilità”, nel senso suddetto di irrealizzabilità dello scopo) parziale anziché totale o temporanea anziché permanente, con la conseguenza che i contraenti possono evitare la risoluzione e mantenere in vita il contratto concordandone una modifica nel senso della riduzione e/o rinvio della prestazione professionale ovvero della riduzione del compenso (artt. 1464 e 1467, terzo comma, c.c.).

Ebbene, immaginando dunque che l’impossibilità sia solo temporanea (perché è prevedibile o almeno auspicabile che l’emergenza sanitaria termini, così come la vigenza dei conseguenti provvedimenti governativi), può sostenersi che in tal caso il contratto sia semplicemente “sospeso”, nel senso che il committente (cliente) non potrà pretendere l’esecuzione finché perdura la detta impossibilità e il prestatore d’opera (professionista) dunque non sarà tenuto a nessun risarcimento per il ritardo nell’esecuzione dell’opera.

Si può del resto anche immaginare che l’impossibilità in questione sia solo parziale (sia perché il lavoro professionale può generalmente svolgersi “a distanza” e con modalità smart working, sia perché l’Allegato 1 del DPCM 23 marzo 2020 ha comunque stabilito che, tra le attività “non sospese” per l’emergenza coronavirus, rientrino anche, a titolo di esempio, le attività legali e contabili, nonché le attività degli studi di architettura e di ingegneria): in tal caso, dunque, il professionista sarà obbligato ad eseguire la propria prestazione e il cliente sarà obbligato a pagarlo.

In entrambe le ipotesi, si ripete, resta però ferma, sia per il committente che per il professionista, la possibilità:

  1. di risolvere il contratto per impossibilità sopravenuta ex art. 1463 c.c., qualora ne sussistano la condizioni di impossibilità totale (ad esempio, perché qualora ai fini dell’esecuzione del suo lavoro il professionista debba necessariamente recarsi in studio e/o azienda e/o cantiere e ciò non gli sia consentito a causa dei provvedimenti dell’Autorità pubblica) e permanente, ovvero qualora le parti non abbiano intesse alla sua esecuzione parziale o “rinviata” nel tempo (ma, in tal caso, l’altra parte potrà evitare la risoluzione proponendo una diminuzione della prestazione rimasta possibile, ex art. 1464 c.c.): in tal caso, il professionista ha comunque diritto ad avere un compenso per il lavoro prestato, in proporzione all’utilità per il cliente della parte dell’opera compiuta, ex art. 2228 c.c.;
  2. di risolvere il contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c., qualora a causa del “verificarsi dell’avvenimento straordinario ed imprevedibile” senza dubbio costituito dall’emergenza coronavirus, la sua prestazione sia diventata eccessivamente “squilibrata” o “sproporzionata” rispetto alla controprestazione a carico della controparte (ma, ugualmente, l’altra parte potrà evitare la risoluzione proponendo una diminuzione della prestazione rimasta possibile, ex art. 1467, terzo comma, c.c.): anche in tal caso, il professionista ha comunque diritto ad avere un compenso per il lavoro prestato, in proporzione all’utilità per il cliente della parte dell’opera compiuta, ex art. 2228 c.c.;
  3. di recedere dal contratto ex artt. 2227 e 2237 c.c. (possibilità che va riconosciuta al cliente ma anche al professionista, rappresentando l’emergenza coronavirus una “giusta causa” ex art. 2237, secondo comma, c.c., con la precisazione però che il suo recesso deve comunque avvenire “in modo da evitare pregiudizio al cliente” ex art. 2237, terzo comma, c.c.): in tal caso, il professionista ha diritto al rimborso delle spese sostenute e al compenso per l’opera professionale eventualmente già svolta, che va però rapportato, nel solo caso di suo recesso, non solo e non tanto all’opera svolta (com’è invece nel caso di recesso del cliente), ma anche e soprattutto all’utilità che ne abbia tratto il cliente e al valore del risultato  da questi ottenuto; al riguardo, si ricorda che anche in caso di impossibilità sopravvenuta nel contratto d’appalto, all’appaltatore spetta ex art. 1672 c.c. un  compenso per l’opera svolta, rapportato però non solo all’utilità che il committente ne abbia conseguito (come abbiamo appena visto essere nel caso di contratto d’opera e d’opera professionale), ma anche al prezzo pattuito per l’opera intera.
  1. Le attività professionali continuative.

Pare poi opportuno distinguere, tra le attività professionali, quelle che non consistono nel compimento di una singola opera specifica e, diremmo, puntuale, ma piuttosto nello svolgimento di un “servizio” (ad esempio, una generale consulenza) continuativo o comunque duraturo, prolungato o ripetuto nel tempo, con o senza previsione di un termine finale, determinando così in buona sostanza una sorta di collaborazione coordinata e continuativa a favore del committente.

In questi casi, premesso che gli obblighi previsti dal d.lgs. n. 81 del 2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro trovano applicazione anche in riferimento ai lavoratori autonomi che svolgano l’attività nell’ambito dell’organizzazione del committente, occorre infatti chiedersi se l’eventuale sospensione delle attività di quest’ultimo possa legittimare la sospensione del rapporto e con quali conseguenze sul piano del compenso dei primi.

Ebbene, trattandosi come detto di una sorta di collaborazione coordinata e continuativa svolta nell’ambito dell’organizzazione aziendale del committente, sembra corretto sostenere che tale questione vada affrontata come quella analoga che può porsi in riferimento al rapporto di lavoro subordinato (sebbene, nel caso di lavoro libero professionale o in genere autonomo, non sia possibile il ricorso agli strumenti previdenziali, come ad esempio la Cassa integrazione, previsti a sostegno del lavoratore dipendente).

Occorre quindi distinguere le diverse possibili ipotesi:

  1. se la prestazione può essere svolta a distanza, non può parlarsi di impossibilità assoluta e dunque la prestazione potrà essere resa, con diritto del professionista al corrispettivo;
  2. se la prestazione non può essere svolta a distanza, ma richiede la presenza in azienda (e/o cantiere) ed essa è impraticabile, occorre verificare:
  3. se ci si trova in un’ipotesi di impossibilità oggettiva, non imputabile ad alcuna delle parti (ma, ad esempio, conseguente ai provvedimenti restrittivi del Governo o altra Autorità pubblica), nel qual caso si avrà sospensione di entrambe le obbligazioni, cioè sia di quella del professionista di compiere l’opera o il servizio, sia di quella del cliente di pagargli il compenso, salva la possibilità di risoluzione (ex artt. 1463 e 1467 c.c.) e di recesso (ex artt. 1464, 2227 e 2237 c.c.) già viste in precedenza;
  4. se la situazione sia imputabile al committente (che decida unilateralmente di sospendere le attività senza esservi tenuto), nel qual caso il prestatore d’opera avrà diritto al compenso;
  5. se l’impossibilità di rendere la prestazione dipende da cause inerenti al prestatore (quali, ad esempio, una condizione di malattia ovvero l’obbligo di isolamento domiciliare che renda impraticabile la continuazione dell’attività), nel qual caso deve ritenersi che il rischio gravi sul lavoratore, che non potrà rivendicare il diritto al compenso (salvo il diritto di valersi di sostituti ex art. 2232 c.c.) né ad altre forme di tutela indennitaria (salvo che questo sia previsto dallo specifico contratto): l’unica tutela, in questo frangente, è infatti rappresentata dall’art. 14 della legge n. 81 del 2017, che prevede che la malattia del lavoratore autonomo che presti la propria attività per il committente in via continuativa non comporta l’estinzione del rapporto, la cui esecuzione può essere sospesa su richiesta del lavoratore, senza diritto al corrispettivo e per un periodo non superiore a 150 giorni, salvo che il committente non provi di non avere interesse alla permanenza del rapporto.

In ogni caso, fuori del caso di impossibilità, il recesso ante tempus del cliente comporterà l’obbligo di risarcire il collaboratore libero professionista del mancato guadagno sino alla scadenza del contratto, mentre in caso di rapporto a tempo indeterminato sarà possibile recedere solo con congruo preavviso ex art. 3 della citata legge n. 81 del 2017.

In tutte queste ipotesi, peraltro, occorre rammentare che se la prestazione diventa solo parzialmente impossibile, potrà trovare applicazione la disciplina codicistica in materia di impossibilità parziale (art. 1464 c.c.) e le parti potranno convenire una riduzione della prestazione e del corrispettivo, mentre potranno recedere dal contratto solo se non vi è alcun interesse all’adempimento parziale.

In ogni caso, correttezza e buona fede dovrebbero imporre a tutte le parti approcci cautelativi e volti a consentire, magari previa rinegoziazione, la conservazione del rapporto.

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